“A Jihad for Love”. La lotta per amare: un film di quelli “ che cambiano la vita”
“A Jihad for Love” è la storia di sei storie d’amore, di violenza e di oppressione. Sei storie di amori omeorotici di donne e uomini omosessuali musulmani.
È il regista indiano, Parvez Sharma, a presentare il film all’Ambrosio Due di Torino.
La parola “jihad” o “guerra santa” assume spesso, nell’immaginario collettivo, una connotazione negativa. Traducibile non solo nell’accezione riduttiva di “guerra” essa ha un ruolo centrale nell’Islam poiché si riferisce allo sforzo individuale di “lottare nel sentiero di Dio” e di servire la società islamica attraverso le proprie azioni e la condotta individuale. “Questo film intende raccontare la jihad ripudiando il concetto di guerra” ritornando al significato della parola legato alla lotta e allo struggimento interiore.
Il documentario, girato in nove lingue e in dodici paesi, tra cui in India, Pakistan, Iran, Turchia, Egitto, Sud Africa fino ad arrivare in Francia, ritrae la vita di alcuni gay e lesbiche musulmani praticanti Vi si narrano racconti d’amore e processi verso l’accettazione di sé, attraverso il superamento di conflitti interni, familiari e sociali – ripresi per circa cinque anni e mezzo in clandestinità – perché gli omosessuali nel mondo islamico sono perseguitati e clandestini e il rischio quotidiano non è solo l’emarginazione ma la pena di morte.
Una lettura intellettualmente onesta, trasversale e provocatoria, è d’obbligo: un mullah, intervistato nel film osserva che tutte le religioni monoteistiche aborriscono l’omosessualità. Così emerge in tutta la sua reale tragicità il rapporto, relativamente insuperabile e insanabile, fra sessualità e religione che, se nel privato attiene alla cultura e al credo del singolo, nella dimensione sociale e collettiva deve fare i conti con le istituzioni della fede. I musulmani, dice Sharma, ritengono che l’omosessualità sia vietata dal Libro Sacro e a Maometto se ne attribuisce la condanna mentre il lesbismo, a quanto riferito, sembrerebbe non essere neppure preso in considerazione nel Corano. Nella maggior parte degli stati musulmani la legge proibisce l’omosessualità e prevede la carcerazione, la tortura e la condanna a morte degli omosessuali. Essa proibisce il lesbismo così come il rapporto sessuale tra due donne con penetrazione ma se non c’è penetrazione non è prevista una pena severa.
In prima italiana al Torino GLBT Film Festival – in concorso nella sezione documentari – il film è stato proiettato domenica 20 aprile 2008 al 23° Da Sodoma a Hollywood. I film che cambiano la vita” del Torino GLBT Film Festival ed è stato premiato dalla giuria, composta da Lilian Faderman, scrittrice e storica americana, Jamie Babbit regista statunitense, e il portoghese Joao Ferreira, direttore del Queer Lisboa – Lisbon Lesbian & Gay Film Festival, che ha ritenuto il film quello che più ha risposto alla filosofia del festival “i film che cambiano la vita” per la sua importanza sia nel mondo islamico sia in quello occidentale, per l’ambizione e l’ampio sguardo sulla topografia geografica e umana. E ancora per una regia coraggiosa, ipnotizzante e convincente”.
Il film, in tournée in Spagna, a Copenagen e Istanbul, è un’opera prima e anche primo documentario su questo argomento. Il lavoro, articolato, scritto e diretto da Parvez Sharma, anche produttore e regista radiofonico che ha trattato spesso temi legati ai diritti umani, è stato prodotto da Sandi Dubowski e Parvez Sharma e cofinanziato da Logo-NY, ZDF/Arte Channel4, SBS, Katahdin, Sundance Documentary Fund.
Era stato presentato, in prima mondiale, a Toronto nel 2007, official selection a Berlino 2008, Best documentary Mix Brasil, Best documentary Image Nation Montreal, Best documentary Turin GLBT Film Festival, Best tricontinental Film festival India: in totale in quattordici paesi.
La maggioranza dei gay e delle lesbiche musulmani non vuole ripudiare la propria religione ma intende far convivere omosessualità e credo.
Sharma ha detto “È una posizione difficile la mia: io sono un gay musulmano quindi il mio compito è quello di difendere l’Islam ma allo stesso tempo di criticarlo”.
Imperdibile.
È il regista indiano, Parvez Sharma, a presentare il film all’Ambrosio Due di Torino.
La parola “jihad” o “guerra santa” assume spesso, nell’immaginario collettivo, una connotazione negativa. Traducibile non solo nell’accezione riduttiva di “guerra” essa ha un ruolo centrale nell’Islam poiché si riferisce allo sforzo individuale di “lottare nel sentiero di Dio” e di servire la società islamica attraverso le proprie azioni e la condotta individuale. “Questo film intende raccontare la jihad ripudiando il concetto di guerra” ritornando al significato della parola legato alla lotta e allo struggimento interiore.
Il documentario, girato in nove lingue e in dodici paesi, tra cui in India, Pakistan, Iran, Turchia, Egitto, Sud Africa fino ad arrivare in Francia, ritrae la vita di alcuni gay e lesbiche musulmani praticanti Vi si narrano racconti d’amore e processi verso l’accettazione di sé, attraverso il superamento di conflitti interni, familiari e sociali – ripresi per circa cinque anni e mezzo in clandestinità – perché gli omosessuali nel mondo islamico sono perseguitati e clandestini e il rischio quotidiano non è solo l’emarginazione ma la pena di morte.
Una lettura intellettualmente onesta, trasversale e provocatoria, è d’obbligo: un mullah, intervistato nel film osserva che tutte le religioni monoteistiche aborriscono l’omosessualità. Così emerge in tutta la sua reale tragicità il rapporto, relativamente insuperabile e insanabile, fra sessualità e religione che, se nel privato attiene alla cultura e al credo del singolo, nella dimensione sociale e collettiva deve fare i conti con le istituzioni della fede. I musulmani, dice Sharma, ritengono che l’omosessualità sia vietata dal Libro Sacro e a Maometto se ne attribuisce la condanna mentre il lesbismo, a quanto riferito, sembrerebbe non essere neppure preso in considerazione nel Corano. Nella maggior parte degli stati musulmani la legge proibisce l’omosessualità e prevede la carcerazione, la tortura e la condanna a morte degli omosessuali. Essa proibisce il lesbismo così come il rapporto sessuale tra due donne con penetrazione ma se non c’è penetrazione non è prevista una pena severa.
In prima italiana al Torino GLBT Film Festival – in concorso nella sezione documentari – il film è stato proiettato domenica 20 aprile 2008 al 23° Da Sodoma a Hollywood. I film che cambiano la vita” del Torino GLBT Film Festival ed è stato premiato dalla giuria, composta da Lilian Faderman, scrittrice e storica americana, Jamie Babbit regista statunitense, e il portoghese Joao Ferreira, direttore del Queer Lisboa – Lisbon Lesbian & Gay Film Festival, che ha ritenuto il film quello che più ha risposto alla filosofia del festival “i film che cambiano la vita” per la sua importanza sia nel mondo islamico sia in quello occidentale, per l’ambizione e l’ampio sguardo sulla topografia geografica e umana. E ancora per una regia coraggiosa, ipnotizzante e convincente”.
Il film, in tournée in Spagna, a Copenagen e Istanbul, è un’opera prima e anche primo documentario su questo argomento. Il lavoro, articolato, scritto e diretto da Parvez Sharma, anche produttore e regista radiofonico che ha trattato spesso temi legati ai diritti umani, è stato prodotto da Sandi Dubowski e Parvez Sharma e cofinanziato da Logo-NY, ZDF/Arte Channel4, SBS, Katahdin, Sundance Documentary Fund.
Era stato presentato, in prima mondiale, a Toronto nel 2007, official selection a Berlino 2008, Best documentary Mix Brasil, Best documentary Image Nation Montreal, Best documentary Turin GLBT Film Festival, Best tricontinental Film festival India: in totale in quattordici paesi.
La maggioranza dei gay e delle lesbiche musulmani non vuole ripudiare la propria religione ma intende far convivere omosessualità e credo.
Sharma ha detto “È una posizione difficile la mia: io sono un gay musulmano quindi il mio compito è quello di difendere l’Islam ma allo stesso tempo di criticarlo”.
Imperdibile.
Dedicato a quel po’ di razzismo che c’è in ognuno di noi, nell’accezione di Tahar Ben Jelloun, quando afferma: “Il razzista è colui che crede che tutto ciò che è troppo differente da lui stesso lo minaccia nella sua tranquillità”.
In questi tempi di ordinato disordine …
Silvia Berruto
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