Fotografia e politica
Del "Discorso sulla servitù volontaria" e della noncollaborazione
"Per il momento vorrei soltanto comprendere come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città e tante nazioni sopportino talvolta un tiranno solo, che non ha altro potere se non quello che essi gli accordano, che ha facoltà di nuocere loro solo finché sono disposti a sopportarlo, e che non potrebbe fare loro alcun male se essi non preferissero tollerarlo anziché opporglisi".[…]
"Per di più non c'è bisogno di combatterlo né di vincerlo questo tiranno. Si sconfigge da solo, a patto che il paese non acconsenta alla propria servitù. Non si tratta di sottrargli qualcosa, ma di non dargli nulla. Non è necessario che il paese si affanni a fare qualcosa per sé, purché non faccia nulla contro di sé".[…]
"Siate risoluti a non servire più e sarete liberi. Non vi chiedo di scacciare il tiranno, di rimuoverlo, soltanto di smettere di sostenerlo, e lo vedrete crollare per il suo stesso peso e frantumarsi, come un colosso cui sia stata demolita la base".
Così Etienne de La Boétie, nel 1548, nel suo "Discours de la servitude volontaire" esprime, in un testo quanto mai attuale, la sua giovanile ribellione al potere. " È stato quindi il primo teorico della strategia della disobbedienza civile di massa …" ricorda, a buon diritto, l'economista statunitense Murray Newton Rothbard nel saggio introduttivo "The Political Thought of Etienne de La Boétie" che accompagnava l'edizione americana del 1975 di "The Discourse of Volontary Servitude".
L'intellettuale sollecita ognuno a realizzare la propria emancipazione personale, contestualizzata e interpretata in una dimensione politica più ampia: in quella misura più ricca e allargata che è rappresentata dalla collettività.
Egli invita ad una lotta politica, per contrastare la politica governativa e le sue pratiche, basata sulla partecipazione e sul protagonismo attivi. Agendo sulla leva del consenso e della noncollaborazione il popolo può riappropriarsi del proprio potere e agirlo: una resistenza spontanea e deliberata di fronte alla violenza del dominatore.
Questo proposito può essere assunto nei confronti di tutti i dominatori, non solo verso gli antagonisti politici.
Ed è per questa ragione che ho scelto la noncollaborazione.
Nel 2004 ho osservato un embedded locale confondere politica con "Informazione e comunicazione", chiamare in causa, a sproposito, in periodo elettorale, la "par condicio" per costruire una teoria verosimile sulla necessità di una tutela autoritaria da esercitare nei confronti delle fotografie realizzate da un fotoreporter professionista. Ho osservato quindi la sua richiesta, ribadita pubblicamente, di censura preventiva, verso terzi, relativa a immagini fotografiche.
Mi resta ancora da vedere, anche a livello locale, quanto paventato ne "La qualità dell'informazione in pericolo" (inserito nel più ampio articolo " Storia del Grin. Gruppo a difesa delle foto verità" apparso su "Giornalisti" del gennaio-febbraio 2004): "L'attacco alla qualità e alla libertà dell'informazione è in atto. Occorre segnalare che fa parte di questa strategia la pericolosa tendenza degli editori (ma non solo, nda) non ad assumere persone giornalisticamente e fotograficamente competenti, ma ad affidare la responsabilità dell'utilizzo delle immagini alle segreterie che, fra le loro molteplici altre incombenze, si occupano prevalentemente della ricerca o a personale che risponde a service esterni alle redazioni. Il tutto ovviamente a discapito di un corretto uso dell'immagine, della qualità complessiva dei giornali e dell'etica dell'informazione".
Questa prassi rappresenterebbe un grave precedente per la libertà di informazione e per la categoria dei giornalisti e dei fotoreporter.
Infine, nel gennaio 2005, sono stata messa nell'impossibilità di concludere un progetto, in essere dal maggio 2003, a causa di un altro veto sulle immagini fotografiche.
Mi piacerebbe poter difendere, anche col mio lavoro, le libertà acquisite e lottare per quelle ancora da conquistare: per tutti, non per un'élite esclusiva.
Ma se non è possibile fare informazione con le immagini, e qui mi piace evocare l'ormai abusato, ma sempre centrato, Leitmotiv secondo cui "un'immagine vale più di mille parole" e un po' me ne dispiace per i professionisti della parola, è venuto per me il tempo della noncollaborazione.
Scelgo quindi di riappropriarmi del controllo diretto sul mio lavoro, senza mediatori, come deve essere, per scelta e per deontologia, un fotoreporter giornalista e di non offrire più il mio supporto a pubblicazioni in cui l'esercizio del protagonismo attivo nella propria professionalità non è esercitabile.
Sia pure. Ma non nel mio nome.
Perché bisogna pur decidere se essere servitori dell'informazione o servi.
E se la censura continua è utile ricordare che la controinformazione avanza.
"Per il momento vorrei soltanto comprendere come sia possibile che tanti uomini, tanti paesi, tante città e tante nazioni sopportino talvolta un tiranno solo, che non ha altro potere se non quello che essi gli accordano, che ha facoltà di nuocere loro solo finché sono disposti a sopportarlo, e che non potrebbe fare loro alcun male se essi non preferissero tollerarlo anziché opporglisi".[…]
"Per di più non c'è bisogno di combatterlo né di vincerlo questo tiranno. Si sconfigge da solo, a patto che il paese non acconsenta alla propria servitù. Non si tratta di sottrargli qualcosa, ma di non dargli nulla. Non è necessario che il paese si affanni a fare qualcosa per sé, purché non faccia nulla contro di sé".[…]
"Siate risoluti a non servire più e sarete liberi. Non vi chiedo di scacciare il tiranno, di rimuoverlo, soltanto di smettere di sostenerlo, e lo vedrete crollare per il suo stesso peso e frantumarsi, come un colosso cui sia stata demolita la base".
Così Etienne de La Boétie, nel 1548, nel suo "Discours de la servitude volontaire" esprime, in un testo quanto mai attuale, la sua giovanile ribellione al potere. " È stato quindi il primo teorico della strategia della disobbedienza civile di massa …" ricorda, a buon diritto, l'economista statunitense Murray Newton Rothbard nel saggio introduttivo "The Political Thought of Etienne de La Boétie" che accompagnava l'edizione americana del 1975 di "The Discourse of Volontary Servitude".
L'intellettuale sollecita ognuno a realizzare la propria emancipazione personale, contestualizzata e interpretata in una dimensione politica più ampia: in quella misura più ricca e allargata che è rappresentata dalla collettività.
Egli invita ad una lotta politica, per contrastare la politica governativa e le sue pratiche, basata sulla partecipazione e sul protagonismo attivi. Agendo sulla leva del consenso e della noncollaborazione il popolo può riappropriarsi del proprio potere e agirlo: una resistenza spontanea e deliberata di fronte alla violenza del dominatore.
Questo proposito può essere assunto nei confronti di tutti i dominatori, non solo verso gli antagonisti politici.
Ed è per questa ragione che ho scelto la noncollaborazione.
Nel 2004 ho osservato un embedded locale confondere politica con "Informazione e comunicazione", chiamare in causa, a sproposito, in periodo elettorale, la "par condicio" per costruire una teoria verosimile sulla necessità di una tutela autoritaria da esercitare nei confronti delle fotografie realizzate da un fotoreporter professionista. Ho osservato quindi la sua richiesta, ribadita pubblicamente, di censura preventiva, verso terzi, relativa a immagini fotografiche.
Mi resta ancora da vedere, anche a livello locale, quanto paventato ne "La qualità dell'informazione in pericolo" (inserito nel più ampio articolo " Storia del Grin. Gruppo a difesa delle foto verità" apparso su "Giornalisti" del gennaio-febbraio 2004): "L'attacco alla qualità e alla libertà dell'informazione è in atto. Occorre segnalare che fa parte di questa strategia la pericolosa tendenza degli editori (ma non solo, nda) non ad assumere persone giornalisticamente e fotograficamente competenti, ma ad affidare la responsabilità dell'utilizzo delle immagini alle segreterie che, fra le loro molteplici altre incombenze, si occupano prevalentemente della ricerca o a personale che risponde a service esterni alle redazioni. Il tutto ovviamente a discapito di un corretto uso dell'immagine, della qualità complessiva dei giornali e dell'etica dell'informazione".
Questa prassi rappresenterebbe un grave precedente per la libertà di informazione e per la categoria dei giornalisti e dei fotoreporter.
Infine, nel gennaio 2005, sono stata messa nell'impossibilità di concludere un progetto, in essere dal maggio 2003, a causa di un altro veto sulle immagini fotografiche.
Mi piacerebbe poter difendere, anche col mio lavoro, le libertà acquisite e lottare per quelle ancora da conquistare: per tutti, non per un'élite esclusiva.
Ma se non è possibile fare informazione con le immagini, e qui mi piace evocare l'ormai abusato, ma sempre centrato, Leitmotiv secondo cui "un'immagine vale più di mille parole" e un po' me ne dispiace per i professionisti della parola, è venuto per me il tempo della noncollaborazione.
Scelgo quindi di riappropriarmi del controllo diretto sul mio lavoro, senza mediatori, come deve essere, per scelta e per deontologia, un fotoreporter giornalista e di non offrire più il mio supporto a pubblicazioni in cui l'esercizio del protagonismo attivo nella propria professionalità non è esercitabile.
Sia pure. Ma non nel mio nome.
Perché bisogna pur decidere se essere servitori dell'informazione o servi.
E se la censura continua è utile ricordare che la controinformazione avanza.
Silvia Berruto
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